Il pifferaio magico: L’esclusione sociale degli individui portatori di handicap e disabilità
Il pifferaio magico: L’esclusione sociale degli individui portatori di handicap e disabilità

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Il pifferaio magico: L’esclusione sociale degli individui portatori di handicap e disabilità

Il Pifferaio Magico, leggenda dalle origini antiche nata nella seconda metà del XIV secolo che narra una storia svolta in Bassa Sassonia, ad Hamelin, nel 1284, potrebbe rappresentare uno specchio della nostra società. Per questo l’obiettivo di questo mio scritto è cercare di comprendere come si colloca l’handicap nel contesto sociale odierno.

La società moderna e la cultura della perfezione: un’analisi critica

La nostra società moderna ha dei ritmi velocissimi, e non lascia spazio alla riflessione.

La ricerca spasmodica della perfezione e i suoi effetti negativi

I parametri che propone in continuazione sono quelli della perfezione: avere un corpo perfetto, una famiglia perfetta, un lavoro perfetto. In questo contesto risulta molto facile dimenticarsi di chi non riesce a produrre questi parametri. Nessuno si preoccupa di chi rimane indietro.

L’individualismo e la solitudine delle persone con disabilità

Questa società dai tratti fortemente narcisisti non sente come propri i figli che hanno delle mancanze, delle carenze prestazionali. Non solo, ma induce i suoi cittadini a diventare individualisti. Costringe ad una solitudine alla quale non siamo strutturalmente preparati. Come si colloca in questo contesto l’individuo portatore di handicap? Come si può sentire all’interno di questa cultura della prestazione dove la migliore performance viene da tutti ricercata e premiata? Proviamo a riflettere sulla storia del Pifferaio Magico.

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Il Pifferaio Magico: una metafora dell’esclusione sociale

La città di Hamelin è infestata dai topi. Il sindaco, disperato, non sa che fare. Si presenta un misterioso individuo, armato di un flauto, che propone al sindaco di liberare la città dai topi utilizzando la musica del suo strumento, e accordandosi per questo sul compenso. Il sindaco acconsente, ed anzi rilancia sul compenso. Il pifferaio riesce ad attirare tutti i topi della città intorno a sé, come ipnotizzati dalla musica del flauto, e li conduce al fiume dove questi si tuffano e annegano senza opporre resistenza, spinti dalla misteriosa magia. Quando il pifferario si presenta dal sindaco a riscuotere, questi gli nega il compenso e lo tratta con sufficienza, poiché lui ha ormai riscosso il consenso del popolo e non ha più interesse a onorare il debito. Il pifferaio lo minaccia di una oscura vendetta, ma il sindaco lo caccia in malo modo. Così arriva la vendetta del pifferaio, che con altre note ripete la magia, ma stavolta attirando intorno a sé i bambini di Hamelin. Li conduce con sé fino fuori la città, sul dorso della montagna, e quindi li fa scomparire in un'apertura dentro la montagna, da cui non torneranno più, nonostante il pianto delle madri e il pentimento del sindaco truffatore. Hamelin resterà a lungo una città senza bambini. Un solo bambino si salva, e diventa da allora il figlio di tutte le madri di Hamelin: si tratta di un bambino zoppo, che non ce l'ha fatta a seguire i compagni dietro al pifferaio, ed è rimasto chiuso fuori dalla montagna.

La disabilità nella società: il bambino zoppo come simbolo

L’isolamento del bambino zoppo: una riflessione psicologica

Il povero bimbo zoppo non riesce a seguire come i suoi coetanei la musica del piffero. Nessuno si preoccupa di lui, che è rimasto indietro. Per questo, quando sperimenta la solitudine di non essere stato ammesso alla festa collettiva di tutti i suoi compagni, egli cade in disperazione. Seppure il suo handicap lo abbia salvato, lui non lo sa.

Pur se sopravvissuto, egli sperimenta sentimenti di inadeguatezza che rimarranno imprigionati nella sua immagine di se stesso per molto tempo. La sua tristezza diventa infinita. Nonostante l’origine antica di questa fiaba, riscritta anche dai Fratelli Grimm, questo scritto mostra uno spaccato sociale attualissimo. Il bimbo zoppo non ce la fa a stare al passo con gli altri, nessuno lo aspetta, nessuno gli dona la sua mano. Eppure si salva solo lui, colui che non riesce ad arrivare. Come si sarà sentito quando il portone nascosto sotto la montagna si richiude lasciandolo fuori dal divertimento dei suoi pari per sempre? N

on è forse quello che sperimenta emozionalmente un individuo portatore di handicap quotidianamente ai nostri giorni? In una società come la nostra, dove la ricerca della perfezione è spasmodica, complici gli innumerevoli messaggi pubblicitari che inducono a pensare che chi non è o non ha abbastanza non sia adeguato, come si collocano le persone portatrici di handicap? Forse come il bimbo zoppo della fiaba sperimentano vissuti di inadeguatezza, di inferiorità. Totalmente da soli, esclusi, senza speranza, preclusi alla felicità dei simili. Pensano di non meritare la gioia condivisa, se pur effimera. Questa favola potrebbe essere letta alla luce di un punto di vista molto attuale e che ci riguarda tutti.

L’impatto storico e culturale sull’inclusione sociale delle persone con disabilità

Quanti pifferai magici esistono ai nostri giorni, i quali promettono il miraggio di una vita migliore e di gioie effimere, o semplicemente rivendicano l’avidità dimostrata nei loro confronti in modo crudele? Una società fortemente narcisista come la nostra ci porta a ragionare per stereotipi ben mirati che naturalmente lasciano indietro chiunque non emerga nella ricerca della migliore prestazione. La nostra società si individua nella ricerca spasmodica dell’oggetto più all’avanguardia. Se non hai quel telefono, quella macchina, quel vestito o accessorio firmato, se non hai il portafoglio pieno, a livello sociale sei considerato il nulla.

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Dall’epoca industriale alla società moderna: l’evoluzione della percezione della disabilità

Anche se siamo tutti distratti, da sempre conviviamo con l’handicap. In alcuni tempi passati veniva addirittura percepito come inaccettabile e quindi perseguibile. Per esempio con la rivoluzione industriale si diffonde la narrazione secondo la quale solo chi partecipa alla produttività della società è considerato “normale” e meritevole di farne parte, mentre in epoca nazista le persone con disabilità erano considerate vite indegne di essere vissute. E capiamo bene quanto sia pericolosa una tale mentalità.

Come se la persona portatrice di handicap avesse una qualche responsabilità sul suo essere «diverso». La situazione attuale siamo sicuri sia davvero migliore di quella passata? Secondo me non siamo cambiati molto. Infatti le disabilità, le menomazioni (che appaiono frequenti nella clinica del secondo dopoguerra) suscitano paura e sentimenti di orrore condiviso tra l’ ignoranza e le credenze della povera gente. Per questo tendiamo sempre a credere patologicamente che l’imperfezione non ci appartenga, che viva al di fuori di noi.

I genitori moderni pretendono la perfezione dai loro figli perchè gli standard sociali attuali lo impongono. I portatori di handicap si sentono come il bimbo zoppo della favola in oggetto: tagliati fuori. E coltivano sentimenti di inadeguatezza, disperazione, per il loro essere apparentemente imperfetti. Non si sentono autorizzati a gioire della vita come fanno i loro simili.

Come costruire una cultura dell’inclusione sociale

Psicologia e inclusione: un nuovo paradigma sociale

In questo contesto il compito di noi psicologi e operatori per il benessere è cercare di minimizzare le differenze e creare un senso di appartenenza che non significhi solo identificarsi con la propria malattia e con la propria mancanza.

Il ruolo della psicologia nella promozione dell’inclusione sociale

Dobbiamo restituire ai portatori di handicap la dignità che questa società ha loro tolto, dovendo dipendere totalmente dagli Altri, e spesso subire le loro prevaricazioni.

Come mai paradossalmente nella fiaba si salva solo il bimbo zoppo? Al cotrario dei suoi simili, abbagliati da gioie effimere, il bimbo zoppo sa ancora vivere nella relazione, all’interno di essa, che è funzionale anche alla sua sopravvivenza fisica. L’Altro è la sua stampella, non solo simbolica. L’Altro diventa il suo appoggio senza il quale non riesce a proseguire il cammino. La morale amara di questo racconto è che nonostante le apparenze, in realtà sono gli altri bambini, quelli «normali» che alla fine rimangono tagliati fuori dalla società, in quanto spariscono per sempre.

Lui si ritrova da solo, insieme agli adulti ed anziani, in una società invecchiata improvvisamente perchè priva di discendenze. Egli non riesce a rispecchiarsi nei pari, e la sua tristezza è incontenibile. Eppure questo nuovo ambiente, se vuole crescere, dovrà forzatamente reinvestire in lui, il più giovane rimasto nel paese. Da lui bisogna ripartire nella costruzione di un nuovo futuro. I bambini che hanno rincorso la gioia effimera sono perduti per sempre, non torneranno mai più. La loro infanzia è stata rubata per sempre dai conflitti degli adulti. Non potranno mai più giocare tra i vicoli del loro piccolo paese, proprio come il gioco è stato precluso al loro simile meno fortunato. Il piccolo sopravvissuto continua a disperarsi perchè dal suo punto di vista è colpa sua se non ha potuto partecipare alla gioia collettiva. Alle sue lacrime si aggiungono quelle di tutti i genitori che non vedranno mai più i loro figli.

L’handicap viene visto come un nemico da combattere e non come una risorsa. Questa favola ci costringe a ripartire da qui, da questa immagine desolante di tristezza. Da questi pianti inconsolabili dei bimbi costretti alla solitudine, non rispecchiandosi coi pari, dalle lacrime di coloro che credono di non poter mai essere come gli altri. Invece le persone con disabilità hanno diritto al rispetto della loro dignità e autonomia; a una piena partecipazione e inclusione nella società; a non essere discriminate o limitate nelle loro possibilità; a essere istruite e informate; a svolgere attività ricreative e sportive, come tutti i loro pari.

Come psicologa mi sento in dovere di aggiungere che accogliere questo dolore e questa solitudine sperimentata da chi non si ritiene perfetto, da chi è più debole, è quanto mai doveroso. Il bimbo zoppo non ha la percezione di essere l’unico sopravvissuto, perchè le sue lacrime si confondono tra la disperazione dei genitori che non vedranno mai più i loro figli.

Il piccolo vive il dolore di essere stato tagliato fuori per sempre da uno spazio precluso a lui soltanto. E rivive qusto trauma ogni giorno. Possiamo ipotizzare che questi sentimenti siano sperimentati da tutti coloro che posseggono un handicap ai giorni nostri. La società non assegna loro nessun valore, come se non avessero alcuna risorsa meritevole, solo perchè nella competizione della migliore prestazione arriveranno sempre ultimi. Non saranno mai vincenti. Il tutto si gioca socialmente sulla migliore performance, sull’essere il migliore, sull’emergere dal gruppo. Eppure la morale sembra insegnarci che è proprio nella relazione che esistiamo e ci salviamo. Nell’incontro con l’Altro possiamo scoprire la bellezza della vita.

A volte il non seguire la massa, diventare la voce dissonante nel gruppo, aiuta a dar spazio alla propria individualità e ci aiuta a non rincorrere finte utopie. Affrontare la disperazione di non essere mai abbastanza adeguato agli standard sociali significa attraversare il proprio dolore fino in fondo, prima di superarlo. Un handicappato non ha un mondo su misura intorno a lui. Anche le azioni più semplici, normali, scontate, diventano per lui ostacolo insormontabile. Quante porte chiuse in faccia egli sperimenta, proprio come nella fiaba?

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Come superare l’esclusione sociale delle persone con disabilità

Il ruolo della terapia e dell’ascolto nella costruzione di un mondo inclusivo

In questo contesto, come possiamo collocare la terapia dell’ascolto e della parola? Innanzitutto creando uno spazio transferale che sia totalmente accogliente, includente, integrante, dove il paziente possa trovare l’ascolto che non riesce a trovare al di fuori. I suoi limiti fisici o mentali possono essere simbolizzati solo con queste premesse. Quello che rappresentava un tabù sociale deve trovare uno spazio dove esistere, liberandosi da ogni vincolo o limite. Perchè almeno durante il tempo limitato della terapia egli possa elaborare concetti, paure, emozioni e perchè possa assumere un punto di vista differente. Soprattutto nei confronti di se stesso. Lo spazio terapeutico deve diventare un luogo dove la mancanza non distorca l’immagine di se stesso. Dobbiamo restituirgli la possibilità di vedersi come figura intera, pur con le proprie carenze strutturali. Una cultura di integrazione, e non di esclusione, deve radicarsi nella società in modo che i meno fortunati non siano più bullizzati, rinnegati, evitati. Spesso coloro che possiedono un handicap non sono supportati neanche dalle loro famiglie, che li considerano forse troppo imperfetti per poter appartenere alle loro vite. In questo caso, noi professionisti, insieme allo Stato ed a tutta la società, dobbiamo garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, aggiungendo a questi anche la necessità di essere amati per quello che si è. Spesso sono proprio i nostri limiti a risparmiarci esperienze disastrose. E non ce ne rendiamo conto. 

BIBLIOGRAFIA

  • Il pifferaio di Hamelin, Robert Browing
  • Il pifferaio magico, F.lli Grimm

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Dott.ssa Tiziana Jean Croccolo

Autrice

Dott.ssa Tiziana Jean Croccolo

Psicologa

Iscrizione albo: Lombardia nr. 10951

Psicologa Clinica, Psicologa Giuridica, Psicologa Forense, Psicologa Investigativa, Criminologa, Criminal Profiler, Psicosomatologa, specializzata nella Clinica Psicoanalitica dei Nuovi Sintomi, specializzata in Analisi Comportamentale, in Psicopatologia Forense ed in Psicodiagnostica Applicata in ambito civile e penale

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