Chi vive una condizione di solitudine, si sente separato dagli altri e si estrania, avvertendo un senso di non appartenenza e non condivisione e percepisce dunque insicurezza e autosvalutazione.
Non c’è un’età associata alla solitudine: in quanto percezione soggettiva, la fascia d’età in cui si manifesta varia da soggetto a soggetto, può essere percepita in tutte le età e può essere transitoria, in risposta a circostanze esterne come lutti, rotture di rapporti significativi, cambiamenti di vita, oppure può rappresentare un tratto distintivo di una persona.
Che cos’è la solitudine?
La solitudine è una condizione mentale in cui l’individuo percepisce un disagio legato all’insoddisfazione delle relazioni che intrattiene, percependole come non vere, non profonde, non soddisfacenti, pur avendo relazioni interpersonali o pur non essendo fisicamente solo; tale disagio, non è solamente dovuto a una distanza fisica, ma anche mentale rispetto agli altri.
È stato studiato come ci sia una differenza importante tra uomini e donne: mentre per gli uomini tra i fattori che causano la solitudine, ai primi posti, c’è la disoccupazione, per le donne pesa la povertà.
Entrambi, però, nella percezione della solitudine, condividono fattori quali la mancanza di affetti, l’assenza di una famiglia e di figli, l’essere separati e divorziati.
Questa condizione, indipendentemente dal genere e dall’età, può provocare sentimenti negativi come infelicità, tristezza, senso di abbandono, rifiuto e perdita di controllo (a cui possono seguire attività compulsive come mangiare o dipendenze), sensazione di essere incompresi, indesiderati e ignorati, sempre carenti di qualcosa che gli altri possiedono.
La solitudine è stata descritta come un divario tra la connessione sociale desiderata e quella reale, può essere causata da bassa autostima, timidezza, timore di essere valutati negativamente e scarse abilità sociali.
Questa condizione psicologica, va però distinta con l’isolamento sociale, che rappresenta invece l’oggettiva assenza di relazioni e/o contatti con gli altri, e si manifesta quando si è fisicamente soli, essa può essere una condizione creata volontariamente in prima persona oppure dagli altri.
Il DSM-5, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, descrive diversi disturbi di personalità che sono caratterizzati da una tendenza alla solitudine: il disturbo paranoide, il disturbo schizoide, il disturbo schizotipico, il disturbo evitante e il disturbo borderline.
In particolare, il disturbo paranoide, il disturbo schizoide e il disturbo schizotipico di personalità, sono caratterizzati da isolamento sociale, possono manifestarsi per la prima volta nell’infanzia e nell’adolescenza e descrivono soggetti che intessono scarse relazioni con i coetanei, hanno un rendimento scolastico inadeguato e mostrano ansia sociale.
Se l’isolamento sociale nel disturbo borderline può manifestarsi come conseguenza di ripetuti fallimenti interpersonali dovuti alle esplosioni di rabbia e alle frequenti variazioni dell’umore, nel disturbo schizoide e schizotipico è il risultato di una persistente mancanza di contatti sociali e di desiderio di intimità; i soggetti con questi due disturbi possono infatti preferire il proprio isolamento sociale, dato il loro limitato desiderio di intimità sociale, a differenza di individui con disturbo evitante di personalità che invece desiderano avere relazioni con gli altri, ma le evitano per sentimenti di inadeguatezza e inferiorità rispetto agli altri, motivo per cui soffrono la propria solitudine.
I soggetti con disturbo schizoide, in particolare, possono avere delle modalità espressive che contribuiscono a dare l’impressione che manchino di emozioni; spesso reagiscono passivamente alle circostanze avverse e hanno difficoltà a rispondere appropriatamente a eventi importanti della vita; mancando di attitudini sociali e di desiderio per le esperienze sessuali, hanno poche amicizie e raramente relazioni sentimentali. Il loro funzionamento in ambito lavorativo può essere compromesso se è richiesto un coinvolgimento interpersonale, altrimenti è intatto se questi soggetti lavorano in condizioni di isolamento sociale.
Il disturbo evitante condivide con il disturbo paranoide la riluttanza nel fidarsi degli altri, ma ciò che li differenzia è che mentre nel disturbo evitante questa riluttanza è dovuta al timore di sentirsi in imbarazzo o inadeguati, in quello paranoide alla paura di intenti malevoli degli altri.
Infine anche chi presenta un disturbo delirante e altri disturbi come quelli correlati a sostanze (intossicazione da cannabis o da altre sostanze) potrebbe tendere all’isolamento sociale con manifestazioni a volte bizzarre rispetto all’espressione della socialità collocabile nella norma.
Il sentimento di solitudine e di isolamento sociale sono tipici anche di problemi associati al vivere da soli, oggetto a volte di attenzione clinica o ha impatto sul trattamento o sulla prognosi dell’individuo.
La tendenza all’isolamento e la perdita di contatto con il mondo esterno sono manifestazioni che caratterizzano inoltre condizioni come la depressione, la schizofrenia, la fobia sociale e i disturbi del comportamento alimentare.
La solitudine è quindi parte integrante sia della formazione che del mantenimento della patologia psichica. È opportuno distinguere la solitudine e l’isolamento sociale dalla paura della solitudine o timore di rimanere soli che può far provare ai soggetti sentimenti molto negativi come insicurezza, ansia e depressione.
Coloro che ne soffrono possono circondarsi di altre persone e vivere nella convinzione che sia necessario stare sempre in con altre persone, fino ad instaurare rapporti di dipendenza.
Frieda Fromm-Reichmann, descrive la solitudine così: ‘appare come una esperienza talmente dolorosa e spaventosa che gli individui fanno di tutto per evitarla […] difficile da descrivere da definire più pericolosa della depressione dell’ansia o della perdita’.
Queste parole sottolineano il carattere negativo, dato dal disagio che provoca, associato alla solitudine.
In realtà la solitudine, non va intesa come necessariamente solo negativa: di per sé non è un disturbo o una malattia è infatti risulta importante imparare a distinguere il ritiro patologico (isolamento non voluto che può portare a conseguenze negative) da un isolamento volontario, che può essere occasione di creatività emotiva e spirituale, oltre che opportunità di riflessione, che si cerca in quei momenti in cui si ha bisogno di riflettere, rilassarsi, concentrarsi, stare da soli con se stessi.
Secondo John Cacioppo, psicologo dell’Università di Chicago ed esperto in questa materia, la solitudine si è evoluta come un meccanismo psicologico protettivo, perché spinge gli individui a ‘costruire connessioni sociali’ e instaurare quindi relazioni, e questo è utile alla sopravvivenza della specie.
Quando si può parlare di ritiro sociale patologico?
Si può parlare di ritiro sociale patologico quando vi è una totale mancanza di interesse nelle relazioni sociali e sono messi in atto comportamenti evitanti estremi, tra cui trascorrere la maggior parte del tempo a casa ed evitare qualsiasi contatto interpersonale.
Il ritiro sociale patologico può essere la manifestazione di un tratto di personalità o di disturbi psicologici più gravi come disturbi del comportamento alimentare, depressione, schizofrenia e altri disturbi della personalità citati in precedenza.
Un esempio di ritiro sociale patologico è quello incarnato dagli Hikikomori, giovani, soprattutto tra i 14 e i 30 anni, generalmente di sesso maschile (70-90% dei casi), che si ritirano dalla vita sociale (‘Hikikomori’ in giapponese significa ‘stare in disparte’) per lunghi periodi, rinchiudendosi nella propria abitazione ed evitando e rifiutando qualunque tipo di contatto con il mondo esterno, compresi i familiari stessi.
Quali trattamenti sono più efficaci per curare la solitudine?
Il loro ritiro sociale è la manifestazione di un forte disagio psichico, che può essere espresso anche attraverso forme di aggressività e scatti di rabbia.
Generalmente questa condizione di ritiro tende a diventare cronica, rischiando di perdurare anche tutta la vita, se non trattata con interventi terapeutici.
Secondo lo psicologo Marco Crepaldi, fondatore dell’associazione Hikikomori Italia, alla base di questa condizione vi è un forte disagio adattivo sociale; i giovani che sperimentano una forte ansia sociale, faticano a relazionarsi con i propri coetanei e ad adattarsi alla società; sono spesso ragazzi molto intelligenti, con un elevato QI, ma di carattere molto introverso e introspettivo, sensibili e inibiti socialmente, convinti di stare meglio da soli.
A volte anche rapporti difficoltosi con i genitori possono incentivare l’instaurarsi di questa condizione.
Generalmente, per la cura del ritiro sociale patologico, sono state sperimentate diverse strategie terapeutiche.
Innanzitutto, per chi ne soffre a un livello grave di auto-reclusione, come nel caso degli Hikikomori, può essere funzionale un intervento psicologico domiciliare oppure una terapia online, in quanto può essere molto difficile per chi manifesta questo disagio, se non impossibile, uscire fuori dalle mura domestiche.
Come curare la condizione di ritiro sociale patologico
In generale, si predilige un trattamento psicoterapeutico che tratti l’ansia sociale, il senso di inadeguatezza, la bassa autostima e tutte quelle cause che poi portano al ritiro patologico.
È fondamentale che il lavoro terapeutico sia fatto sul contesto, sulla famiglia e sulle relazioni all’interno di essa, ed è doveroso in taluni casi prevedere l’inclusione simultanea del paziente e dei suoi genitori.
In alcuni casi può essere utile combinare la psicoterapia individuale con un intervento psicofarmacologico e può essere funzionale una psicoterapia di gruppo, in cui ci si focalizza sulle interazioni tra i partecipanti, per occuparsi così dei problemi di base relazionale.
Bibliografia
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- https://www.fondazioneveronesi.it/magazine
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